Luoghi comuni e omertà invece di serie riflessioni sul territorio, all’indomani dell’alluvione emiliano-romagnola
Gli allagamenti in Emilia-Romagna colpiscono per l’ampiezza della devastazione, dei lutti e dei territori colpiti. Nessuno punta il dito su fenomeni come l’abusivismo edilizio, che viene automaticamente escluso in uno dei territori d’Italia più controllati e conforme a regole e normative urbanistiche. Peccato che, quando una cosa del genere avviene al sud, si dice l’esatto contrario. Va bene che nel meridione l’abusivismo è tendenzialmente più diffuso e meno combattuto, ma non ci si pone alcuna remora, in casi analoghi (prima ancora di aver capito la dinamica degli eventi) a dare subito la colpa agli abusivi, cioè alle stesse vittime di frane ed inondazioni.
I quali, additati come unici colpevoli, ricevono un trattamento ben diverso da quello riservato in questi giorni ad emiliani e romagnoli, giustamente oggetto di apprezzamenti e solidarietà. Preferiamo, per carità di patria, non insistere su questo aspetto, associarci alla solidarietà nei confronti delle vittime ed affrontare temi più “tecnici”, come la gestione del territorio ed il controllo dei corsi d’acqua.
Una pianificazione territoriale mai messa in discussione
Diamo ancora per scontato che la pianificazione territoriale in regioni come quelle padane funzioni e sia rispettata da tutti e dovunque. Occorre chiederci, allora, per quale motivo chi percorre la via Emilia, da Piacenza a Riccione, si trovi costantemente all’interno di un unico, lungo, interminabile agglomerato urbano. Fatto di abitazioni ma anche di migliaia di capannoni industriali. Tutta roba che, carta geografia alla mano, taglia perpendicolarmente tutti gli affluenti meridionali del Po o comunque, più a est, i corsi d’acqua che sfociano in Adriatico dall’Appennino. Si tratta, in quest’ultimo caso, dei luoghi dell’attuale tragedia, dove i ponti crollati e gli argini divelti non si contano.
Ma la stessa cosa avviene anche tra Piemonte, Lombardia e Veneto, dove l’intero asse della A4 Torino-Trieste è regolarmente costeggiato da insediamenti urbani ed industriali, senza soluzione di continuità, a perdita d’occhio per centinaia di chilometri. Sarà anche tutto a norma, ma perchè non si apre una riflessione su una pianificazione territoriale così scriteriata? Sarà forse un caso, come rivelano le statistiche (ma non gli organi di informazione..), che l’area padana sia la più inquinata d’Europa?
Dopo aver sentenziato la colpevolezza del sud abusivo, occorrerà prima o poi riflettere sulle reali cause dei disastri ambientali che colpiscono, regolarmente, le aree del nord industrializzato. Mettendo termine, finalmente, a questo ottuso ed omertoso ossequio alle più potenti amministrazioni locali d’Italia, da sempre ai vertici della “locomotiva d’Italia”.
Lo si può cominciare a fare, dopo essersi dedicati alla sacrosanta raccolta di fondi per riparare gli ingenti danni, già partita all’indomani dell’evento alluvionale. Non ci ricordiamo una solidarietà altrettanto fulminea per gli alluvionati di Ischia o Giampilieri, ma va bene così.
La gestione degli alvei fluviali
Un altro aspetto che varrebbe la pena, finalmente, affrontare è l’annosa questione della pulizia degli alvei fluviali, che solo in questi casi viene, ancorchè timidamente, tirata in ballo per cercare di capire non tanto la causa delle alluvioni, ma almeno la concausa. Se la prima è ormai comunemente (e comodamente) attribuita al riscaldamento globale, perché non affrontare la questione con serietà e senza lasciarsi prendere dal fanatismo ambientalista che sa dire solo “no”?
Magari ricominciando a deforestare gli alvei fluviali, a dragarli ed a rinforzare gli argini, spesso minacciati dall’insediamento di animali impossibili da eliminare se non, figuriamoci, cacciare. Ed è cosi che istrici, nutrie e roditori di ogni tipo trasformano gli argini in gruviere, facilitandone il sempre più frequente crollo alle prime piogge. Ma tanto, se c’è il riscaldamento globale, perché prendersela con piccoli ed indifesi roditori?
Un ambientalismo di maniera
A proposito di riscaldamento globale, in questi giorni ci è capitato di sentire alla radio uno dei tanti geni dell’ambientalismo italico, puntualmente interrogato sulle cause di tanto scempio da un solerte giornalista che, evidentemente, non ha trovato di meglio tra le migliaia di climatologi, meteorologi, ingegneri idraulici e pianificatori territoriali di cui sono piene le Università, gli Istituti di Ricerca ed i Consorzi di bonifica italiani.
Nella lista di cose da fare confezionata da costui a favore dei governanti italiani, tra divieti alla “cementificazione” del territorio (regolarmente messa in atto dalle tante amministrazioni formalmente “ambientaliste” dell’area emiliano-romagnola) e riforestazione dei versanti (dimenticando che gli Appennini sono tra le montagne con la più fitta la copertura arborea d’Europa) non poteva mancare la riduzione delle emissioni di CO2, come se si trattasse di un problema che riguarda solo l’Italia settentrionale. Dimenticando che la CO2 che sta incrementando la temperatura del mondo, Italia inclusa, è un gas serra che ha il pessimo vizio di non fermarsi laddove è stato prodotto, ma gira libero per il globo terracqueo.
E viene prodotto per la maggior parte dai paesi del Far East, Cina in testa: Paesi in via di sviluppo che non ci pensano nemmeno un momento a ridurre i consumi di combustibili fossili, alla base del loro tasso di crescita. E dove gli ambientalisti che massacrano l’occidente industrializzato, Greta in testa, non si fanno vedere neanche dipinti.
E’ questo il modo in cui si affronta, in Italia, l’enorme problema delle frequenti alluvioni e della gestione del territorio: tra luoghi comuni, marchette politiche, amnesie a latitudini alterne e deliri ambientalisti. Non ci resta, quindi, che invocare la clemenza di Giove Pluvio.