Riceviamo e pubblichiamo le riflessioni del prof. Marcello Panzarella sulla voglia di secessionismo che pervade il Sud.

In questi giorni, a causa della melina infinita e delle ipocrisie della politica nostrana riguardo alle scelte sul Ponte di Messina, ho notato il riemergere paradossale di un pensiero secessionista carsico. La prospettiva imminente di un “no” al Ponte, vale a dire la negazione di uno strumento e di una speranza di affrancamento dell’Isola Sicilia dai tanti ceppi cui l’insularità la vincola da secoli, ha prodotto – proprio tra i tanti che molto ci hanno sperato e sperano – più di una reazione, improvvisa, di rigetto: “Non vogliono consentirci la piena continuità territoriale? Cioè, non ci vogliono?

E allora noi ce ne andiamo, e a Messina invece del Ponte ci facciamo un muro”. “Tanti stati – dicono – piccoli, piccolissimi o addirittura lillipuziani se la cavano benissimo; perché allora noi (Sicilia, o anche Sicilia e resto del Sud) non potremmo?” È vero. O perlomeno è vero abbastanza da stimolarne “il pensierino” .

Per limitarci all’Europa, pensiamo a Malta, San Marino, Liechtenstein, Monaco, Andorra: stati mignon che ce l’hanno fatta e “alla grande”, anche se solo come appendici particolari del loro contesto più o meno immediato, dal quale traggono risorse tramite attività di riparo, intermediazione, riciclaggio e moltiplicazione di capitali a loro pervenuti più o meno lecitamente.

Si tratta, in questi casi, di preesistenze comunque consolidate, di antica o storica costituzione, che hanno funto a lungo da valvole di tolleranza, da spazi di convenienza reciproca e implicita, mai del tutto trasparenti, collocati a stretto ridosso dei grandi stati nazionali, a volte a questi incastonati. Altri casi ci mostrano però orizzonti abbastanza proibitivi.

La ricca Catalogna tenta da tempo la via dell’indipendenza, ma non ce la fa, non le riesce, non le è consentito; non lo digerisce la Spagna né di conseguenza lo permette l’Unione Europea: ubi maior (Spagna) minor cessat. Neppure ce l’ha fatta il Paese Basco. Non ci riesce neppure la Scozia. Non ce la fece la Sicilia, ai tempi di Canepa. E, per andare fuori d’Europa, ma restando sempre in Occidente, da tempo il Québec ci tenta, e ugualmente fallisce.

Al contrario, chi ce la fa – o è indotto o costretto a farcela – consegue il risultato profittando del marasma delle dissoluzioni imperiali – come è stata quella dell’URSS – o delle dissoluzioni sub-imperiali, come nel caso della Jugoslavia; oppure ci riesce in derivata dalle dissoluzioni prime, come nel caso della separazione, soffice e consensuale (ma tristissima), delle due componenti maggiori della ex Cecoslovacchia.

Altrove la separazione è invece ruvida, conflittuale, e resta tuttora irrisolta e sospesa, come nel caso del Kossovo. In ogni caso, si è trattato di dissoluzioni epocali, punti di flesso della Storia, manifestatisi con sommovimenti seguiti da più scosse di assestamento e sciami sismici prolungati, come testimoniano il caso Russia/Ucraina/Crimea, e altri conflitti minori, nel Caucaso. Certo, se si tratta del Mezzogiorno e non della sola Sicilia, il conto demografico si moltiplica per più di quattro, e, a scala del Paese, parliamo di un buon terzo dell’Italia.

La Sicilia, se fosse legata dal Ponte col resto del Mezzogiorno, potrebbe costituire con quello un vero Paese, demograficamente rilevante e per di più dotato di una omogeneità nazionale fondata su almeno novecento anni di storia comune. Funzionerebbe economicamente? Il Ponte e una triade di porti strategici, più un circuito di Alta Velocità ferroviaria in teoria glielo consentirebbero. Anche la vicinanza con l’Africa.

Ciò che invece osterebbe, in misura e modi altamente aleatori, sarebbe il quadro: non solo quello europeo (v. il precedente catalano), ma anche quello, forse ancora più cogente, delle alleanze internazionali, nelle contingenze di quel contesto in riscaldamento rapido che è oggi il Mediterraneo. Le incognite sono troppe, alcune enumerabili, altre, a cascata da scenari tra loro differenti, restano innumerevoli e galleggiano nei domini dell’aleatorio estremo.

Per stringere solo sulla questione dei rapporti commerciali interno-esterno, la geografia non può essere ignorata. Un confine ipotetico lungo una altrettanto ipotetica congiungente Tirreno-Adriatico, sarebbe l’unico contatto continentale agibile – vitale e commercialmente imprescindibile – di questa supposta entità meridionale, forse di costituzione federata.

Senza quel contatto, né i porti, né il Ponte avrebbero giustificazione. Si riporrebbe dunque, in modi più netti, il tema dei rapporti Sud-Nord. Anzi del loro rapporto. Unico ed esclusivo solo per il Sud, che resterebbe di gran lunga privo di alternative altrettanto praticabili. La prospettiva unica, quella che in qualche modo (non semplice) potrebbe sopire le inquietudini geopolitiche della sfera d’influenza occidentale e che meno sfavorirebbe i rapporti ad ogni scala, sarebbe forse quella federale, da contemplare o nell’ambito di una più generale rifondazione costituzionale dello Stato italiano, o nel dissolvimento degli Stati nazionali europei in una federazione europea di macroregioni storicamente consolidate e omogenee.

Da questi scenari non si scappa, se non col conflitto e il disastro. Ma, prima di ogni passo estremo, sarebbe possibile pensare a una rifondazione più soffice dello Stato Italiano? Mi augurerei di sì, e lo direi nei termini di un esplicito orizzonte di riequilibrio dello squilibrio storico incessantemente crescente tra Sud e Nord. Nessuno regala niente a nessun altro, specie quando l’altro è il Sud.

Spetterebbe perciò al Sud, al Sud migliore e responsabile, costituirsi come movimento politico trasversale e interclassista da insediare in Parlamento, col primo obiettivo della introduzione in Costituzione di uno scopo da mettere in capo a ogni istituzione e settore della Repubblica: quello del raggiungimento e del mantenimento di una condizione di opportunità per la persona e di livelli e garanzie di cittadinanza parimenti distribuite sul territorio nazionale, a partire dalle leggi di spesa e di bilancio e da una adeguata politica di programmazione e progettazione strategica.