Cenere Etna, Schifani chiede lo stato di emergenza o la mobilitazione della Protezione civile nazionale , ma non si mette mano a rimedi definitivi. L’esempio giapponese
Il presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani, ha chiesto al Dipartimento della Protezione civile nazionale la dichiarazione dello stato di crisi e di emergenza per i danni e la rimozione della cenere vulcanica ricaduta sui territori del Catanese a causa dei forti e ripetuti fenomeni parossistici dell’Etna, tra il 4 luglio e il 14 e 15 agosto. Se non fossero ritenuti presenti i requisiti necessari, in alternativa, il governatore siciliano richiede lo “stato di mobilitazione del servizio nazionale di Protezione civile a supporto del sistema regionale, al fine di attivare ogni possibile iniziativa per la rimozione del materiale vulcanico, la messa in sicurezza del territorio interessato, la mitigazione dei rischi e l’assistenza alla popolazione colpita”.
Così recita la richiesta inviata oggi alla Presidenza del Consiglio dei ministri, firmata da Schifani e dal direttore generale del dipartimento regionale della Protezione civile, Salvo Cocina.
Un’ emergenza ormai “consolidata”. I rimedi no
Si agisce quindi in emergenza, come per un evento naturale imprevedibile. Ma può definirsi tale un fenomeno, quello dell’emissioni di ceneri a seguito di fenomeni di parossismo vulcanico sulla cima dell’Etna, sempre più frequente negli ultimi 20 anni, che nelgi ultimi mesi si ripete a cadenza pressochè settimanale? E che tra 2020 e 2021 si è verificato 50 volte?
Possibile che si debba chiedere lo stato di emergenza, con il rischio che questo non venga concesso dal governo, come è avvenuto, per l’appunto, nel 2021? Tanto che la stessa Regione mette le mani avanti chiedendo “in alternativa” lo “stato di mobilitazione”?
Nella richiesta inviata al Governo nazionale si rammenta che la Regione ha già stanziato un milione di euro destinato ai Comuni per la raccolta e la rimozione del materiale vulcanico dal suolo, ma che tale cifra appare insufficiente di fronte a una spesa necessaria stimata in almeno 7,5 milioni, se non di più, visto che i fenomeni parossistici continuano a ripetersi. Altri 30 milioni sarebbero necessari per i danni alle coperture degli edifici pubblici e ai sistemi di smaltimento delle acque. A ciò vanno aggiunti danni diretti e indiretti alle attività economiche, calcolabili in centinaia di milioni di euro.
Nulla, però viene fatto per realizzare uno strumento permanente per la gestione di questa “emergenza”. Evitando, ad esempio, che le decine di piccoli comuni situati alle falde dell’Etna debbano provvedere, con le loro magre finanze, a rimuovere e riporre da qualche parte migliaia di tonnellate di materiale lavico. Magari istituendo un’autorità unica che intervenga alla bisogna, sotto il controllo della Protezione Civile. Semplice e persino banale, ma nessuno ci ha mai pensato, negli ultimi 20 anni. Forse è più opportuno, politicamente, attendere finanziamenti da distribuire ai piccoli comuni, affidandoli alle sapienti mani dei loro sindaci, e che i cittadini, nel frattempo, si arrangino?
Piccolo inciso: la soluzione che sarebbe insita nella creazione di un’Area Metropolitana sul modello delle grandi città europee, che riunisca tutti questi piccoli comuni ed il capoluogo che, di fatto, formano un’unica città. Ma questo probabilmente è un concetto troppo impegnativo per chi ha identificato come “città metropolitane” le smisurate ex province, anzichè le conurbazioni locali come avviene in Francia o Germania.
L’esempio giapponese
Magari, finalmente, si potrebbe pensare a raccolta e riuso come risorsa, e non come rifiuto, della cenere vulcanica, ottima come materiale inerte da costruzione, ma anche come fertilizzante. evitando di raccoglierla con mezzi inadatti che sollevano pericolosissime polveri sottili.
Basti dire che in Giappone, dove i vulcani non mancano, la raccolta, affidata ad imprese specializzate ed attrezzate con mezzi idonei, avviene in poche ore, dopo aver prima trattato con vapore la cenere presente per strada proprio per evitare lo sviluppo di polveri. Dalle nostre parti, dove non si sa nemmeno se lo Stato si accolla tale onere, ci si affida alle scope ed ai soffiatori dei cittadini, con i risultati che si possono immaginare per la salute degli stessi, e che hanno già riscontrato, per il passato, le ASP locali.
Naturalmente, il materiale raccolto nel Sol Levante poi viene conferito ad impianti appositi che la riutilizzano completamente. E, statene certi, l’eventuale chiusura di un aeroporto si misura in minuti, non in giornate intere .