Giorno 14 marzo il Ministero delle Infrastrutture ha finalmente deciso, sull’onda dell’indignazione generale, la sospensione dei treni Intercity diretti da Milano alla Sicilia. Tutto ciò dopo una settimana in cui i viaggiatori, a migliaia, esodavano da nord a sud senza controlli, mentre i normali cittadini limitavano le proprie uscite da casa a pochi, rarissimi casi consentiti da un apposito Decreto del Presidente del Consiglio.

 

Non è un caso isolato di indecisione o superficialità nel gestire la crisi epocale che stiamo vivendo, da parte di chi ci governa. Se ripercorriamo i fatti di queste ultime settimane, ci accorgiamo, ad esempio, che dalle prime avvisaglie del contagio che ha poi interessato l’intero territorio nazionale, il 21 febbraio scorso, le scuole sono rimaste regolarmente aperte fino al 4 marzo successivo. Il tempo di assistere al rincorrersi di dichiarazioni in libertà da parte dei vari politici, di vari schieramenti, ancora intenti a inseguire l’umore dei votanti: a seconda delle situazioni, l’andazzo è stato “chiudiamo tutto”, poi “riapriamo tutto” fino all’attuale “chiudiamo ancora di più” dopo un altro paio di cambiamenti di opinione, rigorosamente via twitter.

 

Il tutto impreziosito dall’aperitivo milanese “per non perdere le sane abitudini”, che è costato caro al leader politico che se la rideva del Coronavirus, prima di essere dichiarato positivo, finendo in quarantena insieme ad un buon numero di sventurati che gli avevano semplicemente stretto la mano. Atteggiamenti sconsiderati da parte di chi ricopre delle responsabilità, anche se supportati dal parere di qualche virologo con la tessera che, ancor più sconsiderato, invece di consigliare la massima cautela, dava al Coronavirus una settimana di vita.

Il tutto in appena una quindicina di giorni, seguendo le indicazioni degli esperti in comunicazione, veri padroni della politica-spettacolo dell’ultimo, disgraziato quarto di secolo. Nella speranza che questa sciagura li mandi finalmente a spazzare il mare.

 

Al netto delle follie della nostra classe politica e dei colpevoli ritardi di cui qualcuno, alla fine di tutto, dovrebbe assumersi le responsabilità, rimane evidente il senso di confusione e di sbandamento che ha caratterizzato la gestione di questa crisi. L’ansia di “condividere” ogni cosa, tipica del periodo storico buonista che stiamo vivendo, c’entra molto, in tutto ciò, ma non solo. A livello istituzionale non può non essere evidenziato il risultato di decenni di indirizzi politici tutti a senso unico.

 

Per comprenderlo, bisogna risalire storicamente ai tempi in cui, a cavallo di tangentopoli, si pensò che il vero problema, in Italia, fosse l’autonomia delle regioni dal potere centrale. Un’idea nata a nord, cavalcata da una Lega in forte crescita, che minacciava la secessione da “Roma ladrona”. Da allora, le parole d’ordine della politica sono state due:

rendere più autonome le regioni, permettendo ad ognuno di gestirsi le proprie risorse;

smetterla, una buona volta, di sperperare il danaro pubblico in inutili infrastrutture al sud.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti: per quanto concerne il secondo se ne è accorta persino l’Unione Europea, che ha più volte bacchettato il governo centrale per la scarsità degli investimenti pubblici al sud, progressivamente ridotti proprio nello stesso arco di tempo in cui aumentavano al centro-nord. Basta guardare la cartina della rete AV per rendersene conto.

 

Per quanto invece riguarda l’autonomia regionale, incrementata dalla riforma del titolo 5° della Costituzione, pochissimi sono stati coloro che, con lungimiranza, ne avevano previsto le storture. Ci ritroviamo pertanto a vivere in uno Stato con venti regioni dove quasi ognuna stipula un contratto di servizi ferroviari di trasporto con un gestore (quasi sempre lo stesso) o si crea la sua società di servizi; ognuna gestisce strade per conto suo o, spesso, le realizza; ognuna crea enti, società partecipate e persino corpi di polizia. Ma soprattutto dove, e qui arriviamo alla triste attualità, ognuna gestisce il suo sistema sanitario regionale. Una situazione che, finchè si trattava di piazzare gli amici degli amici o creare piccole “anomalie” quasi pittoresche (come per le siringhe a prezzi raddoppiati da un lato all’altro di un confine regionale), si faceva rientrare nell’ambito della normalità di un sistema fin troppo abituato a nepotismi e sprechi. Il tutto magistralmente nascosto dalle eccellenze di poche fortunate regioni, tutte del nord; vere o presunte che fossero. Dimenticando, però, il vero obiettivo del sistema sanitario, che sarebbe anche quello di far fronte a situazioni come quella che stiamo vivendo, dal momento che i virus non riconoscono i confini regionali, né tantomeno le tessere partitiche di governatori, assessori e primari. Ed occorrerebbe come il pane una regia unica per gestire le risorse in maniera unitaria e razionale, capace di prendere decisioni in tempi rapidi.

 

Viceversa, può capitare quello a cui abbiamo assistito nei giorni scorsi: una serie infinita di superficialità, errori, tentennamenti, fughe di notizie. Capita, quando devi “condividere” ordinanze urgenti e decreti con una ventina di governatori e non per far loro una cortesia, ma perchè si applicano a materia “concorrenti” ai sensi del già citato titolo V. Con la conseguenza, magari, di vedere il contenuto del Decreto in TV molto prima che lo stesso venga (tardivamente) emanato: è successo per la decisione di chiudere tutte le scuole di ogni ordine e grado presa il 4 marzo, nonché con il decreto del 9 marzo che limitava la mobilità dei cittadini al minimo indispensabile. Per poi vedere i treni assaltati prima ancora che il Decreto entrasse in vigore.

 

Una fattispecie normativa che già di suo paralizzerebbe qualsiasi paese democratico, ma alla quale si aggiunge la debolezza del governo centrale, da un lato, e la presenza di amministratori locali che, a vario titolo, non la smettono di fare le primedonne neanche di fronte alla tragedia. E non si parla soltanto dei governatori, intenti a lamentare la carenza di aiuti da parte dello Stato pochi giorni dopo aver rifiutato qualsiasi ingerenza del governo centrale rivendicando, orgogliosamente, la propria autonomia che, anzi, doveva essere estesa. Come prevede la riforma dell’autonomia differenziata, tuttora in bozza, per estendere l’autonomia a materie quali la Pubblica Istruzione, accontentando le solite regioni del nord che avevano richiesto di gestire, indisturbate, i “loro” docenti; un malcelato tentativo di allontanare quelli colpevoli di avere origini meridionali, strizzando l’occhio a quella parte di elettorato che teme il “contagio” culturale delle giovani menti padane da parte dei professori terroni. Come si sa, il destino sa essere beffardo, ed i contagi, quelli veri, vanno spesso in senso opposto al previsto…

 

Come se non bastasse, ai governatori in stato confusionale, si aggiungono gli amministratori locali, per esempio a livello comunale o provinciale. Con tanto di ordinanze e “coprifuoco” minacciati quotidianamente via facebook in stile comizio che, al di là del merito, non possono essere tollerati in un momento che richiederebbe un minimo di senso dello Stato. Non mancano iniziative del tutto scriteriate e palesemente discriminatorie come quelle di chi ha deciso di espellere dal proprio territorio tutti i “non residenti”… Dimenticando, oltre ai diritti Costituzionali, che tra questi rientrano medici, infermieri e membri delle Forze dell’Ordine.

 

Insomma, un quadro non proprio rassicurante, che a malapena sarebbe tollerabile in tempi normali, figuriamoci nel bel mezzo di una pandemia mondiale. Nella speranza che la stessa, alla fine, faccia passare per sempre la voglia di pensare alla gestione della cosa pubblica come ad un gioco di puro equilibrio politico, da fare a colpi di tweet.