Il nuovo viadotto Polcevera, quello dell’architetto Renzo Piano, ha recentemente sostituito il predecessore, progettato dall’ing. Riccardo Morandi, crollato il 14 agosto 2018. Con tanto di festeggiamenti e frasi retoriche. Iniziative giuste e condivisibili perchè si è ricucita,a tempo di record, una rete autostradale smembrata dal disastro più grave che si sia registrato nella storia delle infrastrutture italiane. Tuttavia, il confronto tra quel che c’era e quel che c’è adesso lascia ampio spazio alle amare riflessioni di chi ancora si ostina a vedere nell’ingegneria moderna un segno di sviluppo, di progresso.

 

Il ponte del Polcevera, realizzato negli anni ’60, quelli del boom economico, su progetto di Riccardo Morandi, rappresentava un capolavoro indiscusso nel campo della scienza e tecnica delle costruzioni. Al punto che i progetti di Morandi sono stati realizzati, e spesso copiati, a centinaia in tutto il mondo. All’indomani del crollo di quest’opera, ne abbiamo lette e sentite di tutti i colori, a cominciare dal mettere in dubbio, ad ogni piè sospinto, la validità dell’idea progettuale di Morandi. Dimenticando i ritardi e le mancanze di una manutenzione che, per opere del genere, deve essere quotidiana e continua, e non “una tantum”. Basti dire che una delle tre campate del ponte aveva già ricevuto le necessarie cure manutentive, con un intervento straordinario alla parte più “critica” della struttura: gli stralli. Guarda caso, a crollare sono state proprio le campate che non avevano ricevuto lo stesso trattamento.

 

Attenzione però: parte critica non significa fatta male o peggio mal progettata, come troppo spesso abbiamo sentito dire ad esperti da salotto televisivo. Significa che è essenziale ai fini della permanenza della struttura in condizioni di stabilità. In realtà, gli stralli rivestiti di calcestruzzo erano un’idea geniale, partorita da una delle menti più fervide della storia dell’ingegneria italiana, da Leonardo in poi. Una struttura sottoposta a trazione ma solo apparentemente realizzata in calcestruzzo, materiale resistente a compressione. Gli stralli, infatti, erano costituiti da robusti cavi in acciaio: la “fodera” in calcestruzzo serviva a ripararli dagli agenti atmosferici, erosione della salsedine in primis. Una soluzione geniale, ancorchè complessa, capace di conferire alla struttura morandiana un’elegante, piacevole imponenza: non si poteva guardare quel ponte senza rimanerne affascinati. Tant’è che lo si trovava rappresentato ovunque, sui manuali ingegneristici come sui libri di geografia delle medie.

 

Tutt’altro che fragile, quindi, a condizione di trattarne le strutture, e principalmente quella protezione in calcestruzzo, con la stessa cura con cui si riverniciano di continuo le parti metalliche di qualsiasi ponte sospeso, che si trovi o no in prossimità del mare. Si fa ovunque, da New York a S. Francisco, da Sidney a Le Havre. Non in Italia, con tutta evidenza; d’altronde, della sciatteria italica nella manutenzione delle Opere Pubbliche se ne hanno prove tangibili un po’ ovunque in giro per il Bel Paese; purtroppo con tanto di lutti, pur se non paragonabili, fortunatamente, alle 43 vittime di Genova.

 

Il “Morandi” non è affatto crollato perché mal progettato: ma perché, semplicemente, non ce lo siamo meritati. E non ce lo meritiamo ancora. Basti osservare, senza i paraocchi dell’insopportabile retorica dei media, quello che è stato realizzato su progetto di Renzo Piano: campate corte, tanti piloni, nessun elemento strutturale che non sia orizzontale o verticale. Nulla di dissimile, dal punto di vista strutturale, a qualsiasi viadotto di una qualsiasi autostrada. Una struttura semplice ed ordinaria che rappresenta perfettamente la resa dell’ardimento della tecnica di fronte alla piatta normalità; diciamo pure, (non ce ne voglia l’archistar) alla banalità. Senza nessun riguardo non soltanto verso la memoria del progettista, ma anche della struttura stessa, che rappresentava, comunque, un patrimonio dell’ingegno italiano; che invece è stato completamente cancellato, quasi a doversene vergognare. Come se, per fare un esempio a noi vicino, dopo il crollo della cattedrale di Noto, si fosse deciso di ricostruirla senza cupola. Ricordo benissimo che, in quell’occasione, quei pochi che proposero una ricostruzione alternativa al ripristino integrale e filologico del tempio crollato, vennero mandati a farsi un bagno nella vicina spiaggia di Calabernardo.

 

Chissà perchè, nessuno ha proferito parola di fronte alla colossale opera di rimozione realizzata a Genova. In compenso, sul nuovo viadotto vediamo tante luci, tanti profili curvilinei, tanti orpelli, tanta estetica. In stile con i tempi, si potrebbe dire, quando in ogni momento della vita pubblica vediamo l’apparenza imporsi sulla sostanza. D’altronde, della sostanza è rimasto soltanto il ricordo di quello che fu il paese più avanzato in campo ingegneristico, capace di progettare e realizzare le gallerie più lunghe, le dighe più imponenti, i ponti più arditi; prima in Italia, poi in ogni angolo dell’orbe terracqueo, dove la tecnica italiana ha fatto scuola e le imprese nostrane hanno lasciato opere mirabili.

 

Imprese oggi ridotte ad una sparuta manciata e sempre più in difficoltà, se è vero come è vero che persino le granitiche Cooperative sono state costrette ad issare bandiera bianca. Eppure ancora in grado di realizzare opere incredibili come il raddoppio del canale di Panama, tagliando intere montagne. Così come sarebbero state in grado, se in questo paese fosse sopravvissuto alle bizze della politica un brandello di diritto amministrativo, (quanto meno la sana abitudine a rispettare i contratti), di costruire quello che per decenni è stata una chimera ingegneristica: il Ponte sullo Stretto di Messina. Un’opera che oggi chimera rimane, ma non certo per problemi di fattibilità tecnica, risolti brillantemente decenni fa e già copiati ovunque, anche da chi adesso spadroneggia in questo campo: i cinesi. Un popolo che, pur tra mille contraddizioni, si è imposto a livello mondiale proprio per aver puntato tutto sulle infrastrutture, intese ancora come formidabile acceleratore di sviluppo, e non come accessori dannosi per il territorio, inutili per la collettività ed occasione di malaffare per pochi.

 

E’ questa l’idea che si è imposta dalle nostre parti, veicolata da politicanti improvvisati che preferiscono evitare di confrontarsi con temi complessi, come la regolarità degli appalti, eliminando le grandi opere dal proprio programma. Ed ancora largamente accettata da un popolo sempre più imbevuto di sottocultura antiscientifica che alimenta no vax, sirene e scie chimiche, negando le più elementari leggi dello sviluppo economico e denigrando la tecnica ingegneristica. Più comodo e più rassicurante rifugiarsi nella piatta banalità; e che ben venga la “decrescita felice”, tale solo per alcuni. Infelice ad amara per tanti, troppi.

Il viadotto Polvcevera progettato dall’arch. Renzo Piano – fonte Siderweb[spacer height=”40px”]
Il viadotto Polcevera realizzato dall’ing. Riccardo Morandi – fonte Wikipedia