Abbiamo avuto modo di leggere la nuova bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, datata 12 gennaio 2021. Un documento che, pur prevedendo maggiori somme per il meridione appare, rispetto alla precedente versione (vedi articolo del 22/12/2020), affetta dagli stessi errori di fondo oltre che irrimediabilmente dalla stessa assenza di idee sulle cose veramente utili da fare. Riesce spesso a far rimpiangere persino la precedente bozza, che almeno, privando il sud di risorse fondamentali, era meno prodiga di promesse e slogan propagandistici, buoni per i polli.

 

Parliamo delle infrastrutture, elemento fondamentale per ripartire, ma solo condizione di conoscere i fondamenti dell’economia. Cosa, evidentemente lontana dalla portata degli ignoti estensori di questo sedicente “Piano”, che pur riconoscono il “disinvestimento complessivo nella spesa infrastrutturale” al sud, pari al 22,5% del totale nazionale a fronte del 34% della popolazione.

 

Sappiamo per esperienza diretta, ad esempio, che quando si parla di “velocizzazione” delle ferrovie, c’è da preoccuparsi sul serio. Al più, si tratta della rettifica di qualche curva, e amen. Succederà per le linee di cui si preannuncia la “velocizzazione e incremento delle capacità”: Roma-Pescara, Orte-Falconara, Palermo-Catania-Messina, Liguria-Alpi, Taranto- Metaponto-Potenza-Battipaglia e Verona-Brennero (opere di adduzione). Almeno, sulla Palermo-Catania-Messina si getta la maschera, avendola finora spacciata per linea AV. Ruolo che rimane affibbiato, invece, alla ferrovia Salerno-Reggio Calabria, anche se il dubbio rimane: perché, più avanti, a proposito di questa fondamentale ferrovia, si parla di “massima velocizzazione” (pag. 97) e non di “nuova linea AV”?

 

I collegamenti ferroviari con porti ed aeroporti, che peraltro costano 4 spiccioli, sono inutili senza una visione globale. O, meglio, sono utili come i classici specchietti da rifilare agli aborigeni per tenerseli buoni. Se parliamo degli aeroporti, occorre, quanto meno, abbracciare l’intero bacino di utenza regionale, stabilendo, finalmente, chi deve fare cosa. Capire, ad esempio, cosa ci stanno a fare Birgi e Comiso in Sicilia. Sono destinati al fallimento, verso il quale si sono velocemente avviati, diverranno finalmente terminali di collegamenti di una certa importanza o se saranno investiti di un ruolo “satellite” rispettivamente di Palermo e Catania?

 

I collegamenti con i porti possono essere utili soltanto in funzione di un ruolo gateway degli approdi e delle loro strutture retroportuali. Nel caso siciliano, in assenza del Ponte sullo Stretto, non ha senso mettere a terra un solo container, sapendo che lo stesso non sarà, quasi sicuramente, diretto all’interno dell’isola e che quindi, per giungere a destinazione, deve essere rimesso nuovamente in mare tra Messina e Villa S. Giovanni. Con buona pace delle decisioni della UE di trasferire al ferro almeno il 30% delle merci, oggi trasportate quasi interamente su gomma, entro il 2030. Ma non erano proprio gli obiettivi UE la prima preoccupazione del nostro governo?

 

E comunque, ammesso, e non concesso, che si realizzino i collegamenti di cui sopra, c’è da chiedersi perché questo piano non preveda un adeguato potenziamento delle stesse infrastrutture collegate: che senso ha il collegamento ferroviario portuale se poi non c’è il porto? Ad oggi, Augusta, a fronte di un Piano Regolatore Portuale che prevede 9,5 km di banchinamenti, ne ha realizzati 500 m., ed a ragion veduta: da quando il collegamento stabile sullo Stretto è sparito dall’agenda governativa, l’intera struttura portuale è stata rimessa in discussione, ed a nessuno, oggi, verrebbe in mente di mettere mano all’ambizioso PRP che prevede l’indispensabilità del Ponte persino nella sua relazione generale.

 

Quindi, quale sarà la prospettiva dei porti meridionali, posti al centro del Mediterraneo, a poche miglia dalle rotte delle mega-portacontainers dirette da Suez a Rotterdam? Gli esperti ministeriali ci hanno pensato, ed hanno sentenziato così:

Gli interventi su porti e intermodalità per le linee di comunicazione nazionali riguardano lo sviluppo dei porti del Sud anche a fini turistici“.

 

Una frase inaccettabile ed offensiva per l’intelligenza di chi legge, al di à delle conoscenze specifiche della materia. Come è pensabile che il cardine dello sviluppo portuale meridionale non siano più le merci, come avviene ovunque da 3000 anni, ma il turismo? Come si fa a pensare che porti come Gioia Tauro, Taranto e Salerno basino le loro fortune su questa parolina magica? Forse pensano a questo gli esperti del Governo quando pensano ai collegamenti ferroviari, per loro natura dedicati a trasporti “pesanti” e non certo a veicolare vacanziere e crocieristi? Sarebbe ovvio distinguere , quanto meno, tra porti commerciali e porti turistici, ma le avveniristiche teorie degli estensori di questo Piano, evidentemente, sono troppo avanti per essere comprese da noi comuni mortali.

 

Anche perché, la parolina magica (“turismo”, sentite come suona bene?) viene spesa per tutto, anche per i non meglio individuati “porti minori”: “Contestualmente vanno previsti interventi per lo sviluppo dei porti minori del Sud anche in chiave turistica per la navigazione da diporto.

 

Insomma, “potete vivere di solo turismo” come viene spiegato da oltre 50 anni a noi sfortunati figli di un Dio minore, quello meridionale. Anzi, DOVETE vivere di solo turismo. Per chi non l’avesse capito, il concetto è spiegato meglio poco più avanti: “ Lo sfruttamento turistico del Mezzogiorno è infatti una delle ricchezze che l’Italia deve sfruttare maggiormente, e si lega ad una maggiore accessibilità delle coste delle regioni meridionali anche dal lato marittimo.”

 

Con buona pace, oltre che della lingua italiana, anche delle residue speranze del meridione di avere a che fare con governanti seri.