LUOGHI COMUNI COMODI. MA INDEGNI E PURE MASOCHISTICI
Di Marcello Panzarella*
La storia di copertina de “L’Espresso” di questa settimana è dedicata alla Sicilia, o meglio alla Sicilia vista dal fotografo Giuseppe Leone e dallo stilista Domenico Dolce, in occasione di una loro recente collaborazione. Il titolo della storia è “Conversazione sul Paese” nel senso che i due interlocutori vi espongono insieme i loro punti di vista su quella “Questione Meridionale” che il settimanale denuncia come assente dall’agenda di tutti i partiti politici in competizione nella presente campagna elettorale, nazionale e regionale. Una questione che nel suo editoriale il direttore Lirio Abbate giustamente definisce “un’ipoteca sul futuro” di tutto il Paese.
I due artisti raccontano in queste pagine la propria esperienza di vita e lavoro, con sullo sfondo la terra natale; un luogo da abitare, nonostante tutto, o un luogo da cui fuggire, a causa dello stesso “tutto”: il grande fotografo, che non è riuscito a tagliare il cordone ombelicale con l’Isola, lo stilista oggi famoso che al suo primo arrivo a Milano pregò la Madunina di fargli la grazia di non farlo tornare mai più in Sicilia. Belle storie, ricche di considerazioni degne di lettura. Senonché, a chiusura della sua testimonianza, Domenico Dolce, dopo aver osservato, molto giustamente, che alla Sicilia occorrono molti più interventi oltre alle grandi opere, mirati al sociale e alla istruzione, se ne esce con quella sorta di mantra ormai divenuto quasi un obbligo per mostrarsi “profondi”, direttamente ispirato dalle pagine che Tomasi di Lampedusa ha inflitto alla reputazione dei siciliani nel suo celebrato “Gattopardo”.
Non capisco come Domenico Dolce riesca a coniugare il suo corretto punto di vista sulla necessità per la Sicilia di opere piccole e grandi, infrastrutturali e sociali, con queste altre parole, conclusive: “La verità sui siciliani è che non apprezziamo la Sicilia perché non è opera nostra. Tutto quello che riceviamo gratuitamente rischia di non avere valore. Sia esso un bell’abito, un dipinto o un tempio greco. Non riusciamo a governare la bellezza ereditata e valorizzarla adeguatamente. La Sicilia è stata inventata dagli altri.
Da quelli che l’hanno edificata e da quelli che l’hanno raccontata. Non abbiamo dato il “la” a queste meraviglie. Ecco perché i siciliani chiudono gli occhi per non vedere la realtà, bella o brutta». Delle due l’una, o le opere come strade e ferrovie servono al riscatto della popolazione – e servono pure scuole, ospedali, e servizi sociali – oppure – se i siciliani davvero fossero irredimibili come Dolce assevera “après Lampedusa” – non varrebbe la pena di impiegarci un centesimo.
Un modo di pensare che offre molti alibi alla politicanza, e alla discolpa dei pessimi. Che non sono altro che la patologia di una terra non più padrona di sé da secoli, periferica da centinaia di anni: i garanti di poteri sempre lontani, prima i principi come quello di Salina, ora gli ascari. Una visione senza speranza, disperata e disperante, anzi esasperante per coloro che credono e vogliono il riscatto. Perché riconoscere e dichiarare la necessità di opere di progresso e subito dopo aderire alla visione falsa, bugiarda, di un principe in vena di autoassoluzione? Perché di questo si tratta, della autoassoluzione da parte di un esponente di una classe che nel defungere inabissa con sé, spietatamente, quel popolo che la stessa sua genìa aveva ridotto alla condizione esistenziale di pura sopravvivenza.
Basta con questi discorsi di comodo. La Sicilia è afflitta da criticità immani, ma la sindrome della imperfettibilità di un popolo divinamente immobile è una impostura storica. A Dolce, se davvero conoscesse la storia dell’architettura che dichiara di amare, sarebbe chiaro che – tanto per dirne una – il barocco di Noto e del ragusano è figlio dell’arte di quei siciliani che ricostruirono le città di quel “val” dopo i terremoti della seconda metà del Seicento. E lo stesso vale per Catania.
Altro che opere edificate da altri, da gente venuta di fuori, e dunque non amate; e altro che regali senza valore: opere sudate, dai committenti ma soprattutto dai loro architetti siciliani (una schiera), e dalle numerosissime maestranze, un vero popolo di muratori e artigiani che serbarono quell’arte fino alla estrema propaggine ottocentesca. Senza contare che lo stesso paesaggio agrario siciliano è opera dei siciliani. Non scherziamo perciò con le cose serie, anche perché quella Sicilia lì consente agli stessi stilisti Dolce e Gabbana di disporre oggi di una ambientazione superba per le loro sfilate miliardarie.
La Sicilia NON è stata inventata dagli altri, perché i siciliani SONO la loro più antica schiatta, perduta nella notte dei tempi dell’età del bronzo, PIU’ la somma di tutti gli altri venuti da fuori: TUTTI. Nessuno nega la persistenza di mentalità accidiose. Ma non se ne può più di sentirsi dire che i siciliani sono una causa perduta. Frasi masochistiche, se pronunciate dai siciliani, che servono solo a screditare chi le pronuncia, e ad assimilarlo ipso facto alla gente peggiore contro cui lui stesso punta il dito.
*Docente di Composizione architettonica ed urbana (in quiescenza) presso l’Università degli Studi di Palermo
Dello stesso autore, vedi anche:
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