Il Piano Nazionale di Rinascita e Resilienza stupisce non soltanto per quello che prevede, ma soprattutto per quello che non prevede. Al suo interno, fra tanti slogan e buoni propositi, non c’è traccia di ciò che chiunque, in buona fede, considererebbe essenziale per salvare una parte del paese, quella meridionale: un poderoso piano di reindustrializzazione.
Il termine, riconosciamolo, non suona molto bene, ma soprattutto non va molto di moda nei salotti radical chic e, ancor più, tra i teorici della “decrescita felice”: un sogno molto caro ai grillini, che si sono spesi tantissimo per farlo divenire realtà; riuscendoci benissimo, almeno in una parte del paese.
Reindustrializzare, ovviamente, non significa far sorgere ciminiere in ogni dove, come soltanto la superficialità degli ambientalisti ad un tanto al mese può pensare. Significa, innanzitutto, creare le condizioni perché riparta, al di sotto di Roma, la voglia di fare impresa.
Per farlo non bastano le ZES, che, in teoria, dovrebbero semplificare le pratiche ma che richiedono ancora qualcosa come 23 timbri, prima dell’avviamento di una pratica; entità dotate, peraltro, di finanziamenti limitati, non sufficienti ad attrarre nuove attività. Il che fa emergere, ancora una volta, non soltanto l’urgenza di sburocratizzare la Pubblica Amministrazione, ma anche di destinare a queste iniziative le risorse necessarie, accompagnate da una idonea fiscalità di vantaggio, togliendole magari agli inutili sussidi che fanno capolino persino all’interno del PNRR.
Ciò detto, occorrono le infrastrutture. Non parliamo certo delle poche inserite nel PNRR per il sud, che alla fine sono quelle già previste in epoca pre-covid a cui è stata semplicemente cambiata la fonte di finanziamento. Parliamo di sistemi infrastrutturali basati su linee di trasporto ferroviarie ad alta capacità e rete autostradale finalmente adeguata, inseriti in un quadro organico che preveda dove e quando insediare le nuove aree produttive, in funzione della realtà in cui sono inserite.
Con l’indispensabile supporto di un sistema di interporti e raccordi ferroviari, vale a dire ciò che costituisce quella “Intermodalità e logistica integrata” a cui il Piano destina soltanto 3,68 miliardi di euro su tutto il territorio nazionale; ai quali vanno tolti 1,3 miliardi che, all’interno di questa voce, sono previsti per la sola diga foranea del porto di Genova.
A proposito di portualità, è chiaro che nessuna attività legata all’enorme traffico containers che solca il Mediterraneo, può resistere senza la presenza di aree retroportuali dotate non soltanto di spazi adeguati, ma anche di servizi a terra essenziali per supportare il sistema logistico e per la prima lavorazione del prodotto in arrivo.
Si pensi al servizio di transhipment, intrapreso a suo tempo da Gioia Tauro con grande successo, ma impensabile oggi rispetto a realtà come Marsaxlokk o Tangermed, che possono contare su un costo del lavoro molto più basso. Le difficoltà del porto calabrese nell’ultimo decennio sono in tal senso un segnale fin troppo evidente non avendo, alle spalle, una sua area industriale in grado di lavorare le merci sbarcate, in aggiunta al servizio transhipment.
A maggior ragione, senza reindustrializzazione non si può neanche pensare alla possibilità di attivare i servizi Gateway, nell’ambito di una portualità diffusa, in maniera da trasformare finalmente il sud Italia nella porta dell’Europa. Scopriamo pertanto che la reindustrializzazione del territorio non sarebbe fine a sè stessa, e quindi soggetta a tutte le insidie a del mercato, ma rientrerebbe in un piano nazionale, questa volta serio, che ci veda protagonisti e non soltanto spettatori dei traffici merci che solcano il centro del Mediterraneo.