Ormai è chiaro: il PRRN, per chiunque l’abbia letto con un minimo di cognizione si causa, è una rara accozzaglia di buoni propositi ed assegnazione di prebende su richiesta di potentati e clienti vari, distribuiti sul territorio nazionale con netta prevalenza settentrionale. Tecnicamente, è ormai accertato, si tratta di un documento privo di un’analisi pro-ante, di una definizione degli obiettivi da raggiungere, di una corretta analisi delle azioni da compiere, nell’ambito di una visione di insieme: una cosa del genere, non ha neanche il minimo requisito per considerarsi “piano”.
Ma chi ha redatto questo documento ha fatto anche di peggio. Dal punto di vista procedurale, infatti, è impensabile che non si tenga conto del parere delle regioni, che (insieme a sindacati, associazioni, portatori di interesse, terzo settore…) non sono state minimamente interpellate prima e durante la sua stesura. Il buon senso avrebbe suggerito il contrario, dovendosi comunque esaminare le necessità locali, ma in assenza di esso i redattori del sedicente Piano avrebbero dovuto tenere conto di ben altro: precisi obblighi istituzionali sanciti non soltanto a livello europeo ma anche, e soprattutto, a livello nazionale.
La ripartizione della coesione, secondo il trattato dell’Unione, avviene tra Europa, Regioni e Stato: non potrebbe essere tollerato che uno Stato rediga un Piano che se ne infischia, sostanzialmente, del parere di alcune regioni al suo interno, facenti parte, peraltro, del Comitato europeo delle Regioni. Così come, ai sensi della stessa Costituzione italiana, non è certo materia esclusiva dello Stato lo sviluppo e la coesione delle regioni al suo interno; né, tanto meno, la programmazione degli interventi sul territorio, di esclusiva competenza regionale. Eppure, chi ha redatto il Piano, sembra proprio non averne tenuto conto, approfittando del silenzio assordante della Conferenza delle regioni e, spesso, degli stessi governatori.